Tra Etna e Tetide: la potenza di narrare l’invisibile

Immaginare attraverso la negazione: la fotografia come viaggio narrativo tra memoria
geologica e visione interiore

“Ognuno ha i suoi problemi”, risponde con una risata Valeria Pierini, fotografa e artista di origine umbro-pugliese, quando le abbiamo chiesto cosa l’abbia portata sulla strada della fotografia. Eppure, dietro quella risposta ironica, si cela una visione profonda, dove la fotografia è molto più che un mezzo: è una passione, un luogo e un angolo della sua immaginazione.

La sua è una fotografia colta, narrante, mai documentaria in senso stretto. “Da ragazza suonavo in una band e il chitarrista si occupava di fotografia. È stato grazie a lui che mi sono avvicinata a questo mondo. All’inizio mi spaventava molto, perché lo percepivo come tecnico e matematico. Poi ho scoperto che, grazie alla musica e alla fotografia, potevo applicare la matematica pur stando lontana dai calcoli”, confessa Valeria.
Gli inizi risalgono ai primi anni di università. Con i soldi guadagnati lavorando di sera, si compra la prima macchina fotografica. Intanto, legge molto, ascolta, studia, osserva. Pian piano capisce che la fotografia può essere un modo di stare nel mondo, ma anche di aprirsi ad altri mondi.

Il passaggio decisivo arriva quando abbandona il lavoro in un’agenzia di comunicazione per seguire un’intuizione forte: raccontare storie, ma senza aderire ciecamente alla realtà. “Ho capito che si potevano raccontare storie, lavorare per tematiche e che la fotografia non dovesse necessariamente aderire alla realtà. Potevo raccontare anche l’invisibile”.
Nel suo lavoro, lo storytelling non è qualcosa di marginale, ma un elemento ben radicato. Non arriva dopo l’immagine, ma la precede. Le fotografie nascono da un tempo lento fatto di studio, di viaggi, di letture. “Paradossalmente, l’immagine arriva alla fine di un processo molto più ampio, fatto di ricerca, studio e scoperta”, racconta. Prima c’è un processo vasto, stratificato: antropologia, mitologia, letteratura, scienza, psicologia. Bruner e la psicologia culturale sono stati determinanti per lei, tanto da diventare oggetto della sua tesi di laurea, e oggi, il cuore di molti dei corsi che tiene.

Il punto di svolta arriva sei anni fa, con una residenza d’artista di un mese in Irlanda del Nord. È lì che il suo interesse si sposta anche verso tematiche geografiche e geologiche. Da quel momento, la fotografia si fa sempre più viaggio interiore, attraversando territori reali e mentali. Durante la pandemia, bloccata a casa, crea ‘Il libro degli eventi’, un meta-libro interamente dedicato all’Etna e ai vulcani, realizzato da remoto. Nasce così un modello di produzione che è anche relazione: attraverso un crowdfunding, i lettori
diventano sostenitori e destinatari, rimanendo aggiornati sul processo creativo.

‘Studi su Tetide’ e ‘Divampante Fulgore’ (2022)

“Questi due lavori sono fratelli perché ‘Studi su Tetide’ raccoglie fotografie scattate proprio durante la realizzazione di ‘Divampante Fulgore’. È in quel periodo che ho scoperto che l’Etna è emersa da ciò che un tempo era la Tetide, un oceano preistorico che comprendeva anche l’attuale bacino del Mediterraneo”. Dunque, quella ricerca sull’Etna si ramifica e diventa duplice, dando vita ai due meravigliosi progetti. In particolare, ‘Divampante Fulgore’ è un lavoro dedicato al vulcano che si apre proprio con un’immagine del mare. “Quella prima fotografia rappresenta il ribollire dell’oceano preistorico: è, a tutti gli effetti, l’inizio di qualcosa”.
In ‘Studi su Tetide’, le fotografie diventano tentativi di immaginare l’oceano preistorico da cui prende il nome, madre geologica del Mediterraneo. Nel secondo, il vulcano stesso è protagonista, ma mai mostrato direttamente. Quest’ultimo progetto è accompagnato da un secondo libro, ‘Moto a luogo’, che sulla scia del primo raccoglie studi, diari di viaggio, polaroid e riflessioni scritte durante la realizzazione del progetto, sostenuto sempre grazie ad un crowdfunding autogestito.

Il vulcano, di solito, viene rappresentato in un modo che non appartiene allo stile fotografico di Valeria. Quando ha osservato le immagini tradizionali dell’Etna, ha capito subito che non era quella la sua strada. Voleva lavorare sull’immaginazione. “La forma triangolare del vulcano, che è anche un simbolo alchemico, è già di per sé un cliché. Se non vuoi fare una cartolina o un reportage, una possibilità è immaginare attraverso la negazione del soggetto, evocarlo, senza darlo a vedere in modo esplicito”.
Il risultato, insomma, è un lavoro poetico, alchemico, dove l’immaginazione diventa strumento di conoscenza e dove il saper padroneggiare la materia di cui ci si occupa è fondamentale: solo così si può andare oltre.

In questa ricerca visiva e narrativa emerge, oltre al mistero, un altro tema ricorrente: una spiritualità laica, che si manifesta nei simboli, nella geologia, nei paesaggi. “Nella nostra società tendiamo a confondere religione o religiosità con spiritualità, ma non sono la stessa cosa. La spiritualità non è necessariamente religiosa”, spiega.
Triangoli, cerchi ed energia sono elementi ricorrenti nei suoi lavori e si percepisce un legame con la natura che non è religioso, ma profondo e antico. Una delle sue grandi fonti di ispirazione è Alexander von Humboldt, naturalista e geografo vissuto a cavallo tra il 18esimo e 19esimo secolo, primo ad intuire che la natura è un sistema interconnesso, ancor prima che si parlasse di crisi climatica. Humboldt non era credente, ma nutriva grande rispetto per la natura, la venerava, in un certo senso, unendo scienza e arte. Un esempio perfetto di quella spiritualità laica e senza dogmi, che l’artista sente anche come
propria.

‘I greci non conoscevano il blu’ (2023-in progress)

Nel progetto ‘I Greci non conoscevano il blu’, la suggestione parte da un concetto omerico: “il mare color del vino”. Durante un viaggio a Messina, seduta tra lo Ionio e il Tirreno, quell’immagine prende vita: “Era una giornata di scirocco terribile e, osservando il mare, ho pensato: “Ecco, questo è il mare color vino di cui parlava Omero”. I Greci, infatti, non avevano un termine adeguato per chiamare il blu.

Il progetto prende forma tra mitologia, energie e geografia. Le fotografie vengono stampate su cartoncino e colorate a mano con acquerelli: una tecnica che rende gli scatti tattili assieme ad una mappatura sentimentale, dove ogni immagine è una nuova cartografia. “Non parto con l’intenzione di rappresentare oggettivamente un territorio, ma di mostrare la mia versione di quel territorio. Intervengo sulle immagini, e questo le rende inedite”, sottolinea.
Anche qui, l’Etna ritorna come divinità presente e personale e l’oceano Tetide, madre del vulcano, diventa una figura simbolica. È un’onda che riaffiora ovunque: nel mare, nel magma e nell’arte di Valeria. “Come artista, non sento il bisogno di denunciare: sento il bisogno di mostrare una bellezza attraverso cui si può agire”, ci confessa Valeria.

Nel suo lavoro non c’è militanza, ma consapevolezza e amore per l’arte. Il filo conduttore è la natura, intesa anche come natura dell’essere umano, capace di percepire connessioni tra le cose. È proprio questo il vero senso della sua arte, raccontare la natura attraverso la sua visione ed immaginazione. Nessuna adesione a slogan o missioni, ma un profondo senso di responsabilità verso la conoscenza. Attraverso l’arte e l’insegnamento, divulga la fotografia come forma di pensiero. E questo basta. “Il mio contributo, attraverso l’arte, è divulgare la fotografia come forma di conoscenza. Tengo corsi, ed è questa la mia missione. Cerco di fare attenzione alle strumentalizzazioni: credo che chi si sente toccato dalla bellezza, poi agisce”, conclude.

Nel futuro? Per ora, nessuna nuova “vampata d’ispirazione”. Sta lavorando su una serie di fotografie aeree colorate a mano, ma guarda avanti con pazienza: “l’artista deve fare spazio e assorbire. Poi si vedrà. Navighiamo a vista”.

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