Davide Uria presenta “Lucio Fontana spiegato a mia nonna”, un libro fondamentale per approcciarsi all’arte contemporanea

Davide Uria ci presenta il suo libro inedito con l’obiettivo di avvicinare un pubblico inesperto al mondo dell’arte contemporanea in modo semplice e veloce.

Insegnante all’Università della Terza Età di Trani, poeta e autore: il percorso di Davide Uria si muove con naturalezza tra ricerca visiva e parola scritta, in un continuo dialogo con l’arte contemporanea. La sua passione, nata come vocazione profonda più che da un momento preciso, si è trasformata nel tempo in un impegno costante, fatto di studio, sperimentazione e desiderio di avvicinare il pubblico all’arte contemporanea in modo accessibile.
Dopo aver frequentato un istituto grafico con specializzazione in pubblicità — esperienza che gli ha fornito strumenti fondamentali per comprendere composizione e armonia — ha proseguito gli studi all’Accademia di Belle Arti, concentrandosi sulla pittura.
Parallelamente alla pratica artistica, ha coltivato l’amore per la poesia, pubblicando raccolte e collaborando con realtà come RaiPoesia e La Repubblica. L’arte, per lui, non è solo visiva ma anche linguistica: da qui nasce l’idea di rendere accessibile l’arte contemporanea attraverso la scrittura, come dimostra il suo libro Lucio Fontana spiegato a mia nonna: perché i tagli sono opere d’arte, disponibile anche su Amazon. In quest’intervista, Davide Uria racconta come ha dato forma alla sua passione, cercando di trasformarla in un’occasione di dialogo con un pubblico sempre più ampio.

Com’è nata l’idea di scrivere Lucio Fontana: spiegato a mia nonna? C’è stato un momento preciso in cui hai sentito la necessità di farlo?

Sì, ho sentito il bisogno di scriverlo. Insegno a persone adulte, anche avanti con l’età, spesso estranee al mondo dell’arte contemporanea. Il progetto parte dalla mia tesi di laurea: ne ho fatto una rielaborazione e l’ho arricchita con nuove riflessioni, mantenendo però un tono ironico. 
Volevo che il testo fosse accessibile, riflessivo ma anche leggero. Avevo in mente le mie allieve – la maggior parte sono donne, purtroppo gli uomini si interessano meno a questi corsi – e mi è venuta in mente l’immagine di una “nonna” ideale, ispirata a loro, a cui spiegare certi concetti.

Fontana è un simbolo dell’arte contemporanea italiana: più di altri, ha operato un taglio radicale con la tradizione pittorica, lacerando letteralmente la tela. In particolare, mi sono concentrato sulle sue opere con la fenditura centrale. Sono lavori estremamente minimali, ma dietro quell’apparente semplicità si cela una riflessione profonda sull’arte. Quel gesto ci obbliga a fermarci e a pensare a cosa è stata finora l’arte e a cosa potrebbe diventare.
Tagliando la tela, Fontana invita a superare la superficie e anche a me piace andare in profondità nelle cose. Inoltre, con il Manifesto Spazialista ha esplorato lo spazio e la luce: i suoi tagli non erano solo simbolici, ma creavano veri e propri chiaroscuri reali, grazie alla luce che interagiva con i lembi aperti della tela.
Fontana mi ha dato lo spunto per scrivere il libro, e la “nonna” rappresenta le mie allieve, alle quali cerco di trasmettere l’arte contemporanea in modo semplice ma non banale.

Il tuo libro cerca di abbattere la distanza tra il pubblico e l’arte contemporanea. Qual è, secondo te, il più grande malinteso che le persone hanno su questo tipo di arte?

Il malinteso non riguarda solo l’arte contemporanea, ma l’arte in generale. Spesso si pensa che l’arte debba rappresentare qualcosa di riconoscibile. Ci fermiamo a ciò che ci rassicura, che possiamo identificare. Quando questo non accade, ci sentiamo spaesati.
Uno degli errori più comuni è giudicare un’opera esclusivamente dal punto di vista estetico, secondo il binomio “bella/brutta”. Ma esiste una disciplina, l’estetica dell’arte, che ribalta questi criteri: un’opera non deve essere bella per essere valida. La bellezza cambia nel tempo e varia secondo la poetica dell’artista.
Il vero errore sta nel considerare l’arte come un semplice complemento d’arredo. In realtà, bisogna chiedersi: qual è l’intento dell’artista? Cosa vuole comunicare? Solo così possiamo davvero comprendere l’opera.

Come rispondi a chi dice: “Un taglio sulla tela non può essere arte”?

Lucio Fontana era prima di tutto un eccellente disegnatore e scultore. A Milano, al Cimitero Monumentale, ci sono sue sculture straordinarie. I tagli e i buchi arrivano dopo una lunga fase di sperimentazione che parte da un’arte figurativa solida e ben strutturata.
Per comprenderlo, bisogna contestualizzarlo storicamente: siamo nell’Italia del secondo dopoguerra, un periodo carico di drammaticità. Quel taglio sulla tela, che può sembrare semplice, è in realtà un gesto potentemente simbolico, una ferita aperta.
Mi piace citare Bruno Munari, che diceva: “Quando qualcuno dice: questo lo so fare anch’io, vuol dire che lo sa rifare; altrimenti lo avrebbe già fatto prima”.
È l’idea che vince. L’arte non deve essere per forza complicata da realizzare. I tagli di Fontana sembrano semplici, ma nascono da un percorso profondo, da una necessità interiore e da una volontà di superare i limiti dell’arte tradizionale. È il voler andare oltre, fare qualcosa che non è mai stato fatto prima.

Hai citato anche grandi artisti come Yves Klein e Alberto Burri nel tuo libro. Cosa ti affascina maggiormente delle loro opere?

Yves Klein mi affascina per la sua dedizione totale a un colore: il blu. Non un blu qualsiasi, ma un pigmento inventato da lui, brevettato con il nome di International Klein Blue. Ha costruito un’intera poetica attorno a questo colore, che per lui rappresentava il cielo, il mare, un respiro. Si dice che persino Modugno si sia ispirato a lui.
Quanto a Burri, quello che mi colpisce è la sua capacità di rendere l’informe una forma d’arte. Non cerca di spiegare la realtà per come appare, ma sceglie di raccontarla attraverso i materiali. Essendo un medico, Burri conosceva perfettamente la materia: sapeva quando fermarsi con la fiamma ossidrica, ad esempio. Le sue combustioni evocano i drappeggi della tradizione pittorica italiana, ma realizzati con plastiche sciolte.
Amo gli artisti che sperimentano con materiali poveri o industriali, come il catrame.

Hai scelto di usare uno stile ironico e semplice per parlare di arte contemporanea. Quanto è difficile spiegare senza semplificare troppo?

La vera difficoltà non è tanto nello spiegare, ma nel far accettare certi concetti. Spesso bisogna ripetere le cose più volte e anche così non sempre vengono accolte.
Alcuni concetti semplicemente non piacciono, quindi vengono rifiutati. È curioso, perché nessuno metterebbe in discussione la matematica: quella è così e basta. Con l’arte, invece, tutti si sentono in diritto di giudicare, spesso senza accettare com’è.

Insegni all’Università della Terza Età: qual è la domanda più bella o sorprendente che ti è stata fatta dai tuoi studenti?

Più che domande, sono le impressioni che mi colpiscono. Questo libro è nato proprio dalle loro perplessità nel riconoscere certe opere come arte. C’è ancora l’idea che un’opera d’arte debba essere tecnicamente perfetta, “bella” nel senso classico. Una volta una signora mi disse che artisti come Cattelan sono dei “furbetti”. Ad un certo punto, dopo aver spiegato, non pretendo che tutto venga capito, ma almeno accettato per quello che è.

Secondo te, l’arte contemporanea ha ancora il potere di stupire e smuovere le coscienze? O siamo diventati troppo ultra-realisti?

Credo che l’arte abbia ancora quel potere. Penso, ad esempio, a Robert Ryman, un artista che dipinge tele completamente bianche. Il suo è un messaggio è silenzioso ma forte: ci chiede di fermarci, di fare tabula rasa. Viviamo sommersi da immagini, pubblicità, contenuti digitali. Ryman ci ricorda che l’arte può anche raccontare ciò che non c’è, ciò che manca. E ci invita a ripulirci da tutto ciò che è superfluo.

C’è qualche altro progetto su cui stai lavorando attualmente?

Sì, è uscito un nuovo libro il 5 maggio, Sopravvivere a un museo d’arte contemporanea: dieci stanze, dieci artisti, dieci sopravvivenze possibili. Anche questo ha un taglio leggero e ironico: è una visita guidata immaginaria in un museo composto da dieci stanze, ognuna dedicata a un artista. È un libro che riflette molto sulla società di oggi, su ciò a cui diamo importanza e su ciò che invece trascuriamo, pur essendo essenziale.

Cosa ti auguri che il lettore provi o pensi dopo aver chiuso l’ultima pagina del tuo libro?

Non penso di aver fatto scoperte rivoluzionarie, ho semplicemente cercato di dare un contributo. Mi auguro che chi legge possa pensare: “Almeno qualcuno ha provato ad avvicinarsi alla cultura” e magari, da lì, venga voglia di approfondire.

Lascia un commento