LeUltimeParoleFamose: l’arte dell’errore (e di trasformarlo in musica)

In un panorama musicale in continua evoluzione, dove la ricerca della perfezione è all’ordine del giorno, LeUltimeParoleFamose si muove con autenticità ed auto-ironia, mescolando cantautorato, urban e tanta introspezione. Il suo è un viaggio personale, fatto di glitch, errori e paure affrontate a cuore aperto in canzoni che nascono dal bisogno di raccontare qualcosa di autentico.
In questa intervista ci racconta come è nato il suo progetto artistico e cosa significa per lei scrivere musica con un focus speciale sulla sua nuova uscita ‘Glitch’, esempio perfetto di come ha imparato a trasformare le imperfezioni in forza creativa e gli errori in opportunità da cogliere. Una chiacchierata sincera, faccia a faccia — o come l’ha simpaticamente definita lei: ‘computer a computer’ — dove, nella conversazione, parlato e cantato si intrecciano, proprio come nella sua musica.

Fotografie di FriedFilm Studio

Come nasce la tua passione per la musica?


È una passione che ho da quando ero piccola, forse è scontato dirlo, ma non riesco a ricordare un momento preciso: la musica mi ha sempre accompagnata nella crescita. È la mia migliore amica. Ad un certo punto ho capito che volevo farne il mio lavoro. Sin da bambina ascoltavo tanta musica e avevo il desiderio di cantare. Alle elementari suonavo il pianoforte, alle medie ho iniziato a studiare canto e durante il liceo frequentavo già scuole di canto con più costanza. Per me è un’ossessione e scrivere è diventata una vera e propria terapia. Non vengo da una famiglia di artisti o musicisti, quindi si può dire che è stato un imprinting naturale. La musica è un’estensione di me.

Il nome LeUltimeParoleFamose è molto evocativo. Come è nato e cosa rappresenta per te?


Ci ho messo davvero tanto a trovare il mio nome d’arte. Ero in quella fase in cui anche il mio produttore, Zibba, mi spingeva a scegliere un nome e io mi trovavo in quel momento in cui ogni cosa poteva diventarlo. Un giorno, durante un aperitivo con un amico, ho fatto cadere tutto quello che c’era sul tavolo — sono molto maldestra — e con entusiamo dissi: “Eccalà, le ultime parole famose”. L’ho guardato e ho detto con entusiasmo: “Oddio! Potrebbe essere Eccalà il mio nome d’arte!”. Essendo romana, è un intercalare che uso sempre. L’ho proposto al mio produttore, ma secondo lui era “un po’ troppo romano”. Gli piacque però LeUltimeParoleFamose, e così è nato. Questo nome mi rappresenta tantissimo: amo l’autoironia ed è una caratteristica che cerco sempre di portare, anche nelle mie canzoni.

Sei partita da Roma e ora sei a Milano per seguire la musica. Questo cambiamento ha influito sulla tua scrittura e sul tuo percorso musicale?


Assolutamente sì. La mia scrittura cresce insieme a me. Credo che tutto influenzi la scrittura di un cantautore, quindi anche il contesto in cui si vive. Roma e Milano sono entrambe grandi città, ma con energie completamente diverse. Cambiare città mi ha fatto bene, mi ha aiutata a crescere come persona. Milano è stata una grande scuola di vita, ma anche molto dura: mi sono ritrovata da sola in una metropoli velocissima. Avendo la testa spesso tra le nuvole, avevo proprio bisogno di una città così. Qui ho frequentato il conservatorio e ho iniziato a formare la mia band con altri studenti.


“Glitch” sembra trasmettere un messaggio di accettazione e leggerezza verso l’idea che non si può avere il controllo su tutto. Quanto è stato difficile per te imparare a farlo, nella vita e nella musica?


Da 1 a 10? Infinito. Sono la mia peggior nemica: perfezionista, ma in realtà molto caotica. La perfezione non mi rappresenta. Glitch è una canzone uscita dal cuore. A volte ci metto tantissimo a scrivere un brano — alcuni li ho iniziati nel 2020 e finiti nel 2023 — ma Glitch è nata di getto. Ho iniziato con pianoforte e voce, come sempre, poi l’ho sistemata su Logic Pro prima di farla ascoltare a Zibba. Sentivo il bisogno di ricordarmi che, come dico nel testo: “la vita ci ride in faccia mentre facciamo programmi”. Io sono una persona che vorrebbe avere il controllo su tutto, ma in realtà non controllo nulla. Il messaggio è che bisogna lasciar andare le cose, seguire il flusso, perché spesso la vita ti sorprende. L’autoironia ritorna anche qui: imparare a non prendersi troppo sul serio, secondo me, è fondamentale.

Nel tuo testo scrivi: “vada come vada, tanto non si vince sempre […] io ho solo un soffio in tasca, spero che domani sia una barca a vela”. È corretto leggere in questa frase l’idea che la fine di qualcosa possa essere un nuovo inizio? E secondo te, cosa serve per riuscire a vedere nei guasti delle opportunità?


Sì, è proprio così. Infatti scrivo: “se hai bisogno prega, ci vendiamo pure l’aria, io ho solo un soffio in tasca, spero che domani sia una barca a vela”. Come a dire: anche quando tutto sembra difficile, va bene lo stesso. Quel piccolo soffio può diventare il vento che spinge addirittura una barca a vela. Cercare la positività non è facile, ma io provo a trovarla in ogni piccola cosa del quotidiano. Credo che sia l’unico modo per mantenere uno sguardo lucido. È importante affrontare anche ciò che è negativo, guardarlo in faccia, ma allo stesso tempo credo sempre più che ogni cosa negativa sia, in realtà, un’opportunità. Tutto ciò che ti fa uscire dalla comfort zone ti fa crescere.
Questo è il cuore della canzone: l’errore esiste solo se fai qualcosa, ma non è la fine del mondo, anzi. Il messaggio è di positività, ma di quella sana. Non dobbiamo essere sempre perfetti. Gli errori sono fondamentali, sono possibilità. Io mi considero una grande fifona, eppure oggi sto facendo proprio tutto ciò che mi fa paura. Anche pubblicare canzoni mi spaventava, ma Zibba mi ha preso per mano e mi ha convinta a far uscire “FL” (che sta per felpa larga). Da lì ho smesso di cantare solo in cameretta. Ancora oggi mi fa effetto sentirmi su Spotify, ma so che è questa la strada.
Fare ciò che ti spaventa è importante. La paura non è sempre negativa: ci protegge, ma al suo interno nasconde anche desideri. Quando parlo nei brani, ho l’impressione di avere un contatto diretto con chi ascolta, come se fossimo faccia a faccia. Il canto, invece, lo percepisco come qualcosa di più alto, che ti porta in un’altra dimensione. Questo contrasto mi affascina molto.
Sono sfumature diverse di uno stesso disegno e permettono di esprimere la varietà che abbiamo
dentro la voce.

Alterni parlato e cantato con un linguaggio molto diretto e personale. Come hai sviluppato questo stile? Ci sono artisti che ti hanno influenzata?


Ho sempre cantato tanto, arrivo dalla black music. Quando ho iniziato a studiare canto, ero molto concentrata sull’arrivare alle note alte, volevo essere virtuosa in ogni pezzo che interpretavo. Poi, però, ho fatto un passo indietro: studiare è fondamentale, ma ad un certo punto bisogna anche “dimenticare” ciò che si è appreso, nel senso di trovare la propria autenticità, il proprio cassetto artistico. Con la musica vado molto a istinto. Anche quando scrivo e compongo, metto le mani a caso sul pianoforte, senza voler sapere esattamente che note sto suonando. Ho un mio modo di scrivere, e a volte mi “buggo” per capire l’accordo che ho appena creato. Solo alla fine faccio un’analisi per dare un nome a ciò che ho fatto. Lo studio ti dà libertà, ma poi serve lasciarsi andare, un po’ come Picasso che, alla fine della sua carriera, dipingeva come un bambino pur avendo una tecnica immensa alle spalle.
Credo che a volte le parole siano più forti della musica, e che la musica, a sua volta, possa dire ciò che le parole non riescono a esprimere. L’alternanza tra parlato e cantato è nata in modo naturale, proprio per unire le sfumature di entrambi.

Il sound del brano richiama le console arcade. Come è nata questa scelta sonora?


All’inizio, la canzone era scritta in modo molto semplice, solo piano e voce. Poi l’ho portata a Zibba. Quando abbiamo trovato il titolo, Glitch — che in informatica significa errore — è nata l’idea di tradurre anche musicalmente quel concetto. Mentre gli spiegavo il significato del brano, gli parlavo della vita come un videogioco pieno di ostacoli, in cui più vai avanti, più i livelli diventano complessi. Da lì è nata l’idea di inserire sonorità ispirate alle console arcade, unendo il concetto anche a livello sonoro, non solo con parole e titolo.

Il tuo progetto fonde elementi cantautorali e urban. C’è un genere in cui ti identifichi di più o preferisci restare ibrida?

Preferisco restare ibrida. Ho preso un po’ da tutto ciò che mi piace: il jazz, l’R&B, l’Hip-Hop, il lo-fi, l’elettronica, il trip-hop… e li ho fusi con il cantautorato. Mi piace chiamarlo Urban-Cantautorato. Quando mi chiedono che musica faccio, rispondo proprio così, perché attualmente non saprei davvero definirmi con precisione.

L’11 aprile uscirà il tuo EP “Bordolinea”: diresti che c’è un filo conduttore tra i brani?


Sì, i brani sono sicuramente connessi. Credo che quando si scrive, bisogna parlare di ciò che si conosce, altrimenti il pubblico percepisce che il messaggio è finto.
Mi ispiro molto a quello che vivo, o a ciò che accade a chi mi sta vicino. Bordolinea è un EP molto autoriflessivo. A differenza delle uscite precedenti, contiene anche la partecipazione di amici musicisti, quindi avrà un’impronta più acustica, anche se non ho abbandonato il tocco elettronico lo-fi: l’ho solo rielaborato attraverso strumenti come la tromba.
Il titolo, Bordolinea, richiama proprio lo spettro borderline, che è un tema ricorrente nei testi. L’EP racconta una storia e ogni brano è un frammento di questa narrazione, quindi sì: è tutto collegato.

Quali sono gli artisti che ti ispirano di più?


Sicuramente Mac Miller. È stato un punto in comune fondamentale tra me e Zibba. Avevo in mente il mio suono, ma non essendo una producer, per quanto provassi a lavorare su LogicPro, non riuscivo a dare forma alle mie idee. Mac Miller è stato il punto d’incontro perfetto per comunicare e capire la direzione in cui volevamo andare. Credo che cantautore e produttore debbano andare a braccetto anche sul piano del gusto musicale, per poter collaborare al meglio.
Mi ispirano anche Ella Fitzgerald, Etta James, Wilson Pickett, Amy Winehouse, Stevie Wonder… potrei andare avanti all’infinito. Credo che siamo tutti delle spugne: assorbiamo tutto, anche inconsciamente.
Sono una grande fan dei Nirvana e dei Pink Floyd, anche se non c’entro molto con il loro stile. Un altro artista che mi ha davvero aperto al mondo del lo-fi, poco mainstream, è Puma Blue: fa jazz, indie-jazz e lo-fi, e mi ha fatto scoprire un tipo di sonorità calda che mi rappresenta.


Qual è la soddisfazione più grande che hai avuto finora nel fare musica?


Quando ho portato a Zibba “Come restare”. L’abbiamo cantata insieme, ed è stato un momento importantissimo per me, perché è stata la prima volta in cui non ha cambiato una virgola del mio testo. Zibba è un grande artista, un produttore incredibile e anche un ottimo insegnante: mi dà sempre consigli preziosi. Quando mi ha proposto di cantarla con me, ho risposto: “Oddio, scherzi? Magari!”. È stato un momento umano che porterò sempre nel cuore, perché mi ha dato fiducia in ciò che faccio. Da lì mi sono sbloccata nella scrittura. Prima scrivevo e poi cancellavo tutto, perché ero troppo critica con me stessa. Ora, invece, mi dico: “Scrivi, poi al massimo cancelli”.
“Come restare” l’abbiamo registrata in one take, io e lui, su un solo microfono. Ad oggi, risentendo quella canzone, riconosco che senza la sua voce non sarebbe così bella e non avrei potuto esprimere a pieno il concetto di questo pezzo: l’incomunicabilità tra due persone in una relazione. È stata la soddisfazione più grande, poi certo, anche entrare nelle playlist editoriali di Spotify e Apple Music senza avere un’etichetta è stato bellissimo, ma nulla è paragonabile a quel momento.

Che consiglio daresti a chi vuole intraprendere una carriera nella musica?


Non avere fretta. Ci si capisce col tempo. Non conta l’età, ma la qualità di quello che vuoi comunicare. Non cercare la strada più semplice: scegli quella più tortuosa, perché è quella che ti regala più soddisfazione.
Le carriere che durano spesso sono quelle costruite piano piano, crescendo dentro un mondo che va velocissimo. Rimani fedele a te stesso e ascoltati. Come dice Shakespeare: “Se la tua mente è pronta, lo sarà anche il resto”. Tutto parte da lì, dalla mente, dalla salute mentale.
Non metterti delle scadenze rigide: le cose prima o poi arrivano, basta metterci tanto amore. E ricordati che nella musica c’è posto per tutti.

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