La luce della speranza

“Verso la luce: nel dolore più profondo entra la speranza” è il titolo del progetto fotografico di Fabio Bartolozzi

“La mattina presto vengo svegliato da una tenue luce che penetra dalle sporche finestre; non riesco mai a vedere l’orizzonte e spesso invidio l’altezza degli alberi che oltrepassano il muro di cinta. La luce penetra nella stanza da varie fessure creando figure geometriche che, con il passare del tempo cambiano forma e dimensione. Nel dolore più profondo entra la speranza che nonostante tutto sarebbe arrivata la luce anche in quelle piccole celle buie. Tutto si ripete in maniera seriale, scandito dal tempo che non passa mai. Mi avvicino ad una finestra e immagino di essere all’esterno, libero di camminare e muovermi immerso nella natura”. Così inizia la storia di “Verso la luce: nel dolore più profondo entra la speranza”, un reportage che vede come soggetto principale il campo di concentramento di Dachau in Germania, a cura del fotografo Fabio Bartolozzi.

Bartolozzi nasce a Livorno nel 1978, trasferitosi da pochi anni in Alto Adige. A Firenze inizia il suo percorso artistico all’Accademia delle belle arti, fu lì, dopo essersi inizialmente approcciato alla scultura, che nacque la sua passione per la fotografia e la ricerca continua di documentare ogni sfaccettatura dell’umanità. Dopo aver preso parte, da un po’ di anni a questa parte, a diverse mostre collettive, nel 2023 decide di tenere una mostra interamente sua dal titolo “Incontri” presso la Galleria Civica di Riva del Garda (TN).

Una volta concertatosi sulla creazione di veri e propri documentari attraverso le sue foto, il chiaro-scuro diventa la sua tecnica prediletta, citando il fotografo stesso: “Gli scenari urbani prendono sempre più campo ed il monocromo diviene il focus principale nel ritrarre il soggetto nel suo contesto”. L’utilizzo del chiaro-scuro rende tutto più suggestivo e incentiva la metafora della luce in qualità di speranza. Questa tecnica utilizzata consiste nell’alternanza di zone chiare, che in questo frangente simboleggiano la luce speranzosa, e zone più scure, che ricordano il periodo nazista, il più buio dell’umanità, al fine di creare un effetto di volume e profondità. La stessa profondità è presente nella tematica affrontata. Come possono quindi delle foto esprimere un concetto così denso? Secondo Fabio Bartolozzi: “La fotografia nel contemporaneo ricopre una certa importanza, essendo un mezzo espressivo estremamente efficace e diretto, per chi la osserva e allo stesso tempo si propaga velocemente tramite i mezzi di informazione”.

Il campo di terrore ritratto fu eretto nel 1933, dopo la nomina di Adolf Hitler come cancelliere del Reich tedesco, il 30 gennaio del medesimo anno. Da lì, nel giro di qualche settimana, ebbe inizio la dittatura. Dopo qualche mese, il 22 marzo nello specifico, i primi detenuti furono trasportati nel lager, una fabbrica di munizioni e polvere da sparo, ormai in disuso. Fu il comandante Theodor Eicke ad introdurre un sistema punitivo atroce nell’ottobre del 1933, che permise alle SS di avere il pieno controllo sulle vite dei detenuti.
L’anno successivo Eicke, progredito di carica e dunque arrivato ad essere ispettore dei campi di concentramento, validò il “modello Dachau”, elaborato in precedenza da lui stesso, in tutti gli altri campi di concentramento. Questo fu solo l’inizio della storia di questo campo di concentramento (e di molti altri) che inizia a concludersi solo nel 1944.

Quell’anno, la potenza dell’esercito tedesco iniziò a scemare e si avvicinò una sempre più eclatante sconfitta. Al campo di Dachau riuscirono ad arrivare i trasporti di evacuazione, serrati poi dalle SS. Si era arrivati a 30.000 detenuti, vittime di sovraffollamento, condizioni di vita precarie e di conseguenza di un’epidemia di tifo. Gli ultimi mesi di guerra furono devastanti e portarono a uno sterminio di massa.
I prigionieri continuarono ad evacuare anche nel 1945, verso il Tirolo, e molti persero la vita durante il viaggio. Solo il 29 aprile gli americani riuscirono a liberare il campo di Dachau. La storia di questo campo di concentramento fortunatamente giunge al termine. Tuttavia, è importante ancora oggi ricordare quella che è stata la storia per non ripeterla. Interrompere il ciclo.

L’autore di questi scatti arriva all’elaborazione di questo progetto fotografico attraverso una ricerca emozionale all’interno dell’animo umano suggestionato da un luogo, ormai finalmente vuoto, ma così denso di storia e angoscia, che racconta fino a dove la brutalità umana può arrivare. Quello di Bartolozzi è un progetto che però, a differenza di quello che ci si aspetta, rende protagonista la luce, che vuole anche unire gli ambienti esterni con quelli interni creando una sinergia. La luce è anche simbolo di speranza: speranza che un giorno la crudeltà umana venga sepolta e che tutti possano assaporare la libertà di vivere una vita normale, cosa che in questo luogo agghiacciante non era prevista. Chi è sopravvissuto a quell’esperienza terribile porta con sé un peso atroce, ma senza dubbio sa apprezzare veramente la libertà.

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